Pioveva a dirotto pur essendo in piena estate.
Per strada si vedevano le persone correre per non bagnarsi e i bambini che aprivano la bocca verso il cielo facendo uscire la lingua per catturare le gocce.
Lei invece camminava tranquilla, come se niente la sfiorasse, e l’unico pensiero che aveva era arrivare presto al negozio.
Sarebbe entrata, la solita commessa dagli occhi d’un azzurro brillante l’avrebbe salutata, ma lei avrebbe tirato dritto come ogni giorno, poi avrebbe raggiunto lo scaffale e magari avrebbe sentito la campanella della porta a vetri che suonava.
È a quel punto che si sarebbe accorta che una ragazza che conosceva era lì che le chiedeva «come stai?» o «cosa fai?», come se niente fosse…come se ci si potesse dimenticare di tutte le volte che a scuola l’aveva presa in giro ed umiliata!
Così avrebbe storto la bocca e avrebbe chiuso gli occhi per iniziare a strusciare il mento sulla spalla sinistra con movimenti ben delineati e ripetitivi, e avrebbe accuratamente evitato di rispondere, sarebbe rimasta in attesa fino a che l’altra non se ne fosse andata.
Rientrando a casa, bagnata fradicia e con in mano il suo sacchetto che conteneva ben sedici piccole candele colorate con sedici diversi profumi della natura, si ricordò di come, anche da bambina, rimanesse per ore su quelle scale in pietra dura e fredda ad aspettare che nella sua testa qualcosa cambiasse, che il volume si attenuasse così che lei potesse avviarsi in camera a sistemare le sue cose sulle mensole mai impolverate.
Non c’erano molte possibilità che ciò accadesse, lo sapeva, ma si stringeva ugualmente la testa tra le mani in modo che le punte delle dita le comprimessero le tempie, poi univa le ginocchia e meccanicamente dondolava portando il busto avanti e indietro, prima su poi giù, rimanendo comunque seduta e sperando che quel caos si calmasse definitivamente.
Era una croce in quella casa dove aveva vissuto nell’ombra fin da quando era nata: era tutta sua la colpa dei viaggi mai fatti all’estero, delle feste mancate, degli inviti a cena sempre più radi.
E nonostante molto spesso fosse stata lasciata in case altrui o con baby sitters a tempo pieno, riusciva ugualmente a intralciare la vita di sua madre, bellissima fino a diciotto anni fa.
Quando aveva iniziato a crescere, poi, non c’erano stati inviti in discoteca né ai compleanni, non si era ritrovata a casa delle amiche il pomeriggio, non era uscita per andare al cinema la sera e per lei non c’era stata alcuna festa a Giugno per la sua maggiore età.
«preferirei che non ci fosse» sentiva ripetere da sua madre certe sere, quando si metteva dietro la porta della sala da pranzo facendo conca con le mani per ascoltare meglio.
La stessa madre amorevole e premurosa che la accompagnava ovunque desiderasse e che le preparava le torte al limone, le sue preferite.
Lei non era stupida, era solo strana, e questo sua madre non lo capiva.
Continuava piuttosto a occupare anche il posto del marito a letto e ad ingozzarsi di antidepressivi prima di addormentarsi.
Dopo il diploma non c’erano rimaste molte cose da fare per quella ragazza solitaria. L’università non era certo in programma e tutti i colloqui per le offerte di lavoro a cui era stata avviata fino ad allora erano andati di male in peggio.
Certo, chi avrebbe mai voluto assumere come segretaria una persona con quella voce sgraziata?
Chi avrebbe mai voluto una commessa tanto goffa?
E ovviamente lei non partiva col piede giusto, non faceva una bella figura continuando a distrarsi senza mai guardare negli occhi la persona che aveva di fronte.
Era facile pensare che fosse una ragazza maleducata, presuntuosa e svogliata per chi non conosceva il suo problema, ed ancora più facile era starle lontano.
Si faceva molta meno fatica così, che a cercare di comprenderla.
Ogni giorno, quindi, cominciava con un respiro profondo e un pensiero a suo padre, sempre in viaggio per lavoro.
Lui sì che le voleva bene, l’aveva sempre accettata e lei si era sempre sentita sua figlia.
Ogni volta che tornava da qualche paese lontano portava a casa dei giocattoli, alcune foto di posti magnifici e soprattutto una candela per la sua bambina.
Questa volta erano già molti mesi che era partito e ogni volta che lei usciva da casa accompagnata dalla madre per andare a lezione di pianoforte, si chiedeva se lui sarebbe o meno tornato in tempo.
Era quasi Settembre quando il momento arrivò.
«oggi è il gran giorno» le disse sua madre con la solita voce smielata e la lingua da serpente «preparati o arriveremo in ritardo per le prove»
Così la ragazza si vestì con jeans e maglietta conservando l’abito più bello per la serata e trascorse le seguenti due o forse tre ore a provare e riprovare il suo esordio.
Tornata a casa per la cena sentiva gli occhi lucidi e le dita le facevano male, tanto da dover aprire e richiudere i pugni per sgranchirle un po’.
Si fece presto sera e la platea di quel grande teatro si riempì talmente in fretta che lei, affacciandosi da dietro la pesante tenda rossa del sipario, pensava «basta! Chiudete le porte altrimenti non ci sarà più neanche un posto libero per il mio papà!»
Sua madre intanto la richiamava in continuazione ma lei non voleva saperne di stare ferma.
Era un continuo agitarsi e fare avanti e indietro tra il palco e i camerini, il palco e i camerini.
Ma quando il maestro diede l’ inizio al concerto, lui ancora non c’era.
Quando giunse il suo turno le tende si aprirono lentamente, lasciando intravedere dietro di sé un pianoforte al quale lei si sedette ponendo al proprio posto il lungo spartito.
Accostò bene lo sgabello così da arrivare ai tasti e, respirando profondamente, si voltò verso la platea.
Intravide subito sua madre che aveva occupato i posti in prima fila assegnati ai parenti dei partecipanti, poi aguzzò lo sguardo, si sporse anche un pochino, ma di lui nessuna traccia.
Allora abbassò gli occhi, tolse le mani dalla tastiera e il piede dal pedale.
Dal pubblico si alzò un gran rumore di sottofondo, qualcuno si chiedeva cosa stesse succedendo, altri parlottavano tra loro con aria indispettita.
Sua madre scuoteva la testa e si crogiolava nella sua consapevolezza che sarebbe andata così, che nessuno di quei famosi compositori lì presenti avrebbe preso l’operato della figlia in considerazione.
Nella testa della ragazza iniziarono a riecheggiare le voci, c’era una gran confusione e l’amarezza cominciava a dilagare.
Ma proprio mentre iniziava a sentirsi sola e persa, il grande portone d’ingresso al teatro si aprì per poi richiudersi con un tonfo.
Tutti si voltarono e anche lei, che fino a quel momento aveva tenuto la testa bassa, fissò lo sguardo su quell’entratura.
Un uomo alto e vestito di scuro aveva appena oltrepassato la soglia e adesso rimaneva immobile ad osservare.
Con suo grande stupore la ragazza sul palco sentì il cuore in gola e tutto improvvisamente sembrò placarsi.
Restava la schiuma dopo il mare mosso, la quiete dopo la tempesta, la calma dopo il caos.
Così, tornato il colore sul suo viso, Sara suonò.
E suonò serena, come se nessuno la stesse guardando, nessuno tranne lui.
E suonò…voltandosi di tanto in tanto solo per vedere suo padre sorriderle.