ERA SOLA

Capitava così quasi ogni sera: sulla strada per tornare a casa non c’era mai nessuno se non il solito barbone accovacciato vicino alla serranda abbassata del minimarket e di tanto in tanto il cagnolino di quella signora grassa, che abitava al terzo piano del palazzo bianco panna, gironzolava zampettando tra panchina e panchina all’interno del parchetto proprio in mezzo alla piazza.

Doveva avere un codice segreto quel cane, pensava sempre lei ogni volta che si fermava ad osservarlo, altrimenti com’era possibile che non ci fosse la padrona ad accompagnarlo?

Secondo lei, una volta che aveva finito la sua passeggiatina notturna, il cagnetto risaliva le scale ed andava a grattare alla porta finché qualcuno dall’interno non gli avesse fatto una fessura per passarci in mezzo e rientrare in casa, ne era quasi certa, il metodo doveva essere per forza quello, ma si promise che una volta magari sarebbe rimasta per seguirlo e dare ragione oppure torto a quella sua teoria.

Ma che sciocchezze, pensare ai cani…doveva sbrigarsi invece!

Anche quella notte era stata lunga, l’alba era vicina e le lezioni non avrebbero giustificato ritardi od occhiaie.

Se si addormentava, era solo un problema suo.

Accelerando il passo e tenendosi stretta la sciarpa intorno al collo riuscì ad arrivare a casa con le dita dei piedi ancora attaccate.

L’ingresso era buio e la chiave che girava nella toppa fece un rumore sordo, quasi come un tonfo, tanto che il gatto si svegliò ed andò a strusciarsi alle sue gambe ancor prima che lei riuscisse a togliersi il cappotto.

Sfilò i guanti sopportando a mala pena la sensazione di fastidio delle mani ruvide sotto la stoffa rigida e versò una di quelle scatolette puzzolenti nella ciotola dell’animale.

Lui sembrò gradire, lei invece corse in bagno a lavare via dalle mani quel fetore di carne trita e gelatina.

Il suo volto riflesso nello specchio non sembrava neanche il suo.

Come si era ridotta in quello stato?

Una volta le sue labbra erano carnose e rosee, le sue ciglia lunghe, i suoi occhi vivi…adesso invece tutto ciò che vedeva era lo scheletro di un’anima fragile e tormentata, le guance infossate, le palpebre pesanti.

Era l’ora di andare a letto, sentiva che di più non avrebbe retto, così si tolse le scarpe e le appoggiò in un angolo, fece scivolare le calze giù dalle sue cosce e al loro posto indossò i pantaloni della tuta, al posto della maglia scollata una felpa anonima.

Faceva sempre così quando tornava troppo tardi, il pigiama per lei era solo un bel ricordo di un’infanzia felice, ora per andare a letto si metteva gli abiti del giorno dopo così poteva dormire due ore ed essere già pronta al suono della sveglia caricata per arrivare giusto in tempo in classe.

La luce che filtrava dalla veneziana rotta la svegliò poco più tardi e le suggerì che era meglio preparare un caffè prima di dover scappar fuori di casa in fretta ed essere costretta a prenderne uno per strada.

I bar erano sempre affollati a quell’ora, non le andava proprio di fare la fila per un po’ d’acqua sporca con un briciolo di latte, senza contare poi che vedendo la vetrina dei dolci le sarebbe venuta voglia di uno di quei cornetti fragranti e lucidi…spostando lo sguardo sulla parte del salato avrebbe intravisto le schiacciatine col tonno e la maionese di cui andava pazza e sarebbe stata spinta da un istinto irrefrenabile di comprare tutto ciò che desiderava e quello no, proprio non poteva permetterselo.

Per tutta la mattina non riuscì a concentrarsi su ciò che stava vedendo o ascoltando, perfino rimanere connessa sui discorsi dei suoi compagni era stato difficile ed imbarazzante perché era stata costretta più volte a chiedere «come scusa? Non ho capito» e Linda, una delle sue amiche più strette, le aveva ripetuto più volte la frase, ma lei non era riuscita comunque a riprendere il filo del discorso.

Linda se n’era accorta, non era una stupida, teneva davvero a lei e sentiva prima degli altri quando c’era qualcosa che non andava.

«che hai? Mi sembri strana» le aveva chiesto una volta fuori dalle mura della scuola.

«strana dici? Più del solito?»

«solitamente escono più di quattro parole dalla tua bocca nell’arco delle sei ore e quasi sempre riesci a rispondere alle domande senza dovertele ripetere due volte quindi sì, credo tu sia più strana del solito. Ne vuoi parlare?»

Ma Ana non aveva voglia di parlare di niente con nessuno, nemmeno se si trattava di Linda, e fu grata al tempismo perfetto in cui l’autobus si piazzò di fronte a lei aprendo le sue porte e dandole modo di sgattaiolare via.

Congedò l’amica promettendole di chiamarla presto e, anche se sapeva che probabilmente non l’avrebbe fatto, l’altra non si lamentò e si limitò soltanto a salutarla con un gesto della mano.

Il veicolo era pieno come ogni volta e come ogni volta sbandava ad ogni curva. Lei scivolò silenziosamente in fondo e si accomodò di fronte all’uscita, agganciò le mani ad una delle cinghie che pendevano dal soffitto e pregò di arrivare a casa il prima possibile senza intoppi. 

Ma le sue preghiere non vennero ascoltate neanche quella volta: nonostante la grande quantità di gente presente sull’autobus il controllore riuscì comunque a farsi spazio per entrare e lei dovette spingere con tutta la forza che aveva –pur rischiando di sembrare maleducata- per riuscire a scendere prima che le porte si richiudessero e la lasciassero in mano al destino…destino crudele, che sicuramente le avrebbe riservato una multa che non poteva pagare.

Gli ultimi metri prima di arrivare a casa furono tremendamente freddi e faticosi, il vento le pungeva le guance e lei era davvero troppo stanca, ma doveva tenere duro! Una volta dentro quelle quattro pareti sicure si sarebbe preparata un bagno caldo, avrebbe sfamato il suo amico a quattro zampe, e poi con i capelli ancora un po’ umidi si sarebbe infilata sotto al piumone ed avrebbe preso sonno davanti alla tv con in mano una fumante tazza di tè nero al bergamotto, il suo preferito.

Un passo, poi un altro e altri dieci o forse quindici la separavano dal portone quando il suo telefono squillò e dovette fermarsi a rispondere.

Il numero era di Roma, chi mai poteva essere a contattarla da così lontano?

Il suo «pronto» si confuse con dei suoni non identificati dall’altra parte della cornetta e non ci volle molto prima che Ana si rendesse conto che era un altro di quegli stupidi, ossessionanti call center.

Cosa gli avrebbero proposto quella volta? I pannelli fotovoltaici? I depuratori per l’acqua? O magari un’offerta più conveniente per luce e gas.

Era già pronta a ribattere con un «no, grazie, non sono interessata» quando quella ragazza dalla voce squillante e l’accento straniero iniziò a parlare, ma decise che non valeva la pena mettersi a discutere sul perché non avesse voglia di starla ad ascoltare, quindi simulò una perdita di linea e riattaccò senza proferire parola.

Ci avrebbero riprovato, lo sapeva, ma magari l’avrebbero fatto in una giornata meno pesante di quella.

In un sabato forse, un sabato di sole.

L’odore d’umido che proveniva dalla sua casa la lasciò un attimo senza fiato e le venne voglia di fuggire invece che di entrare, ma ormai era tardi e doveva darsi una sistemata, doveva riposare se voleva resistere.

Ancora, dopo quasi un anno, non si era abituata a quell’odore e certe volte vedendo le macchie scure di muffa sui muri del bagno aveva avuto voglia di mandare a fanculo il proprietario che ogni mese gli spillava tutti quei soldi per un bilocale fatiscente.

Non poteva, era ovvio, sarebbe finita in strada o sarebbe stata costretta a cercare un’altra sistemazione rischiando di non trovarne una che facesse al caso delle sue tasche.

«che schifo» si lasciò sfuggire quando vide che il gatto aveva fatto i suoi bisogni fuori dalla lettiera «perché te l’ho comprata se poi li fai per terra?» chiese all’animale, quasi pensando che avrebbe potuto risponderle.

 

«ciao amore!» esordì sua madre al di là dello schermo mentre lei si pettinava i lunghi capelli.  

Da quando la sua amica Linda le aveva regalato quel computer portatile la sua vita era cambiata.

Certo, doveva fare più sacrifici di quelli fatti fino a quel momento per mantenere sempre attiva la chiavetta che le forniva la connessione ad internet, ma ne valeva certo la pena.

«ciao mamă» rispose «come stai?»

«sto come sto sempre…la nonna non fa che peggiorare, sono diventata la sua badante a tempo pieno ormai» disse ridendo «e tu come stai? Come sta andando il nuovo lavoro?»

«oh, alti e bassi, una cosa normale…» gli occhi di Ana si scurirono e pregò che sua madre non se ne accorgesse «adesso devo andare, entro presto stasera»

«mi lasci di già?»

«il dovere chiama mamma, devo andare a fare caffè a benestanti signori in giacca e cravatta» rispose lei alla supplica della donna di restare ancora un po’ e, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi, concluse: «dà un bacio alla nonna da parte mia» prima che sua madre replicasse: «quando vieni a trovarla? Sente tanto la tua mancanza»

Ma a questa domanda Ana non sapeva davvero cosa rispondere.

Dentro di se però sapeva qual’era la verità e, nonostante cercasse di soffocarla dando le spalle al computer per non far vedere i suoi occhi lucidi, era consapevole che probabilmente la risposta sarebbe stata «mai» e sua nonna, la sua povera vecchia e malata nonnina con la quale condivideva i ricordi più gioiosi della sua lontana infanzia, se ne sarebbe andata senza rivederla mai più.

Facendo finta di cercare dei calzini nel grande cassettone di legno dietro di lei, Ana cercò di scacciare via quel pensiero il prima possibile e quando fu pronta tornò a girarsi verso sua madre che adesso, al di là dello schermo, era intenta a ricucire un piccolo sbrano sulla punta di un brutto asciughino da cucina.

«vuoi raccontarmi qualcosa?» chiese la donna dopo qualche momento di silenzio.

«vorrei, ma non ho davvero tempo stasera»

«sembri non averne mai»

«prometto che un giorno ti chiamo quando non ho niente da fare e parliamo quanto vuoi»

«promesso?»

«giuro» e si accostò due dita incrociate alle labbra «ciao mamma»

Quando riattaccò non si diede neanche il tempo di chiudere lo schermo del portatile sopra la tastiera prima di scoppiare in un singhiozzo smorzato dove lacrimoni amari le bagnavano le guance e le arrossavano gli occhi.

In quel momento ringraziò di non essersi ancora truccata per uscire, altrimenti avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo.

 

Nel gelido vento della sera, tra le strade semideserte, sembrava che il tempo in quella città si fosse fermato.

Aveva dato da mangiare al gatto e aveva chiuso bene ogni porta con la doppia mandata prima di uscire di casa ma, non sapeva spiegarsi perché, non riusciva mai a sentirsi del tutto sicura.

Stringendosi il bavero del cappotto ancora più vicino al collo si maledisse per non essersi messa una sciarpa, i guanti però li aveva, ne era certa, doveva solo fermarsi un istante e cercarli: sicuramente erano uno dentro l’altro in giro per quella grande borsa che teneva sottobraccio.

Mise una mano già gelata all’interno e, poggiando la base della borsa sopra un ginocchio usato come piano d’appoggio, iniziò a frugare energicamente.

In quel momento, dall’altra parte della strada, una grande e grossa macchina nera lucida accostò lungo il marciapiede.

Dal suo interno proveniva una musica assordante e dai vetri oscurati non si riusciva a vedere chi ci fosse all’interno.

Ana cercò di non fare caso alle facce dei due uomini una volta che il finestrino fu abbassato, ma concentrarsi su dove fossero finiti i suoi guanti a quel punto risultò impossibile.

«ciao bellezza» fece il primo facendo schioccare la lingua tra i denti mentre l’altro sorrideva.

Erano entrambi giovani, probabilmente non superavano i sessant’anni in due.

Mantenendo la calma Ana lasciò perdere tutto e continuò a camminare lentamente.

Conosceva bene quelle situazioni e sapeva che le probabilità che finissero bene erano davvero poche.

L’unica volta che era riuscita a parlare serenamente con qualcuno in un contesto simile l’aveva fatto perché nella macchina –a noleggio- c’era una donna straniera –probabilmente una turista- che chiedeva indicazioni su come raggiungere il centro.

Avrebbe potuto scappare? Urlare? Qualcuno l’avrebbe sentita e soccorsa in caso di bisogno? Sembrava che lì intorno non ci fosse nessuno.

Nessuno tranne lei e quei due.

«cos’hai? Non rispondi?» continuò quello più scuro di capelli mentre l’altro accelerava a poco a poco in retromarcia per seguirla.

«forse non ha la lingua, Ed!» disse l’autista scatenando l’ilarità dell’amico.

«guarda che gambe! Che ci importa se non parla?» rispose il passeggero, sghignazzando.

A quel punto Ana accelerò il passo, il suo cuore aveva iniziato a battere sempre più veloce e nella sua testa, che sembrava pulsare tanto era il sangue che le era confluito nel cervello, pregò di raggiungere al più presto il bar.

«si può sapere dove stai andando?» l’auto accelerò ancora e lei iniziò a camminare più veloce che poteva.

Forte, sempre più forte sentiva il rombo della macchina che faceva manovra stridendo le ruote sull’asfalto.

In pochi secondi l’avrebbero raggiunta e dio solo sa cosa poteva accadere; doveva correre, raccogliere tutte le sue forze e correre.

Come un miraggio nel deserto, finalmente dopo pochi metri Ana scorse la porta illuminata del pub e sentì che poteva permettersi di rallentare un po’. Camminava a passo svelto e le dolevano i piedi quando afferrò la maniglia del grande portone in legno addobbato con disegni natalizi, appena in tempo per sentire la voce di uno dei due uomini gridare «tesoro, dimmi quanto vuoi!» seguita da una grassa risata.

Una volta che l’auto si fu allontanata, lei tirò un sospiro di sollievo.

Nella sala profumata di alcool e patatine fritte era calato il silenzio.

Girò su se stessa e sentì le guance avvampare vedendo tutti quegli occhi fissi su di lei, tanto che ebbe quasi l’impulso di scappare scivolando fuori dalla porta come una saetta.

«tutto bene?» le chiese un cameriere, gentilmente.

«io…mi stavano inseguendo…»

Sentiva di sudare freddo sotto il grande giubbotto e arrancava, non sapendo neanche cosa dire mentre nel locale tornava il mormorio.

«ha bisogno di aiuto?» continuò il ragazzo col grembiule.

«no, sto bene. Grazie» rispose lisciandosi il vestito come a voler eliminare la polvere di ciò che le era appena capitato «sto bene, devo andare»

Senza altre spiegazioni e senza soffermarsi troppo a pensare a come sarebbe poter servire davvero caffè e poter non dire più bugie a sua madre, guardò bene prima di attraversare la piccola piazza contornata da alberelli, distolse la mente dal pensiero dei suoi poveri piedi già pieni di vesciche, controllò che le calze non si fossero strappate, che i tacchi fossero ancora tutti interi, che il trucco non fosse sbavato, che i capelli fossero ancora decentemente a posto e oltrepassò la soglia del club.

Quella sera ci sarebbe stato sicuramente il pienone e lei avrebbe dovuto fare gli straordinari a causa dell’influenza di Ramona, tutto per colpa del potere della pubblicità…ad avere l’idea era stato il capo poche settimane prima e subito aveva chiamato il negozio per farsi realizzare il più bel cartello dell’anno. Quella notte, sull’insegna del locale che fino a quel momento era rimasta quasi spenta e poco invitante, c’era scritto:

tutto compreso per addio al celibato”

2 risposte a "ERA SOLA"

  1. Anche questa e’ una lettura gradevole, per quanto drammatica. Affronti diversi temi, solitudine, frustrazione per un lavoro deprimente, violenza sulle donne ( per fortuna scampata) ben condensati nella stessa malinconica protagonista. Anche qui avrei sfrondato un po’, qua e la’, ma questo e’ un gusto personale.
    🙂
    ml

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